Dall’avvento del digitale, una delle cose che abbiamo detto o sentito dire più spesso è: “Adesso tutti fanno foto ma nessuno le stampa più, puoi perdere tutti i ricordi da un momento all’altro”. Potrebbe sembrare una di quelle riflessioni cosiddette da “boomer” - e in effetti un po’ lo è - ma è inevitabile guardando la cinematografia di Andrew Haigh.
Le foto stampate, messe lì in uno scatolone in soffitta, sul comodino o nel portafogli ci ricordano da dove veniamo, i nostri rapporti familiari, i momenti felici. Insomma, sono la nostra memoria.
In 45 anni, terzo lungometraggio del regista e sceneggiatore britannico (uscito nelle sale nel 2015), le fotografie sono il terzo protagonista oltre alla meravigliosa coppia formata da Charlotte Rampling e Tom Courtenay. Le foto che in quarantacinque anni di matrimonio non hanno scattato, quelle che il personaggio di Rampling trova in soffitta e che le riveleranno il passato dell’uomo con cui ha condiviso gran parte della vita, così come il collage fatto da amici e parenti per la loro festa di anniversario: tutte immagini che riportano a galla le emozioni, i ricordi, le speranze e che possono incrinare i rapporti nel presente facendoti dubitare delle scelte fatte. L’analisi meticolosa di un matrimonio e delle sue crepe porterà a Haigh anche una candidatura agli Oscar del 2016.
Alle volte, però, una fotografia rappresenta tutto quello che ti resta. È il caso del protagonista di Lean on Pete, che potremmo definire il film “americano” del regista. Charley Thompson affronterà, con il suo amico cavallo, un lungo e complicatissimo viaggio attraverso gli Stati Uniti per ritrovare sua zia, unica figura materna della sua vita.
E ancora una volta ritroviamo questo ruolo centrale in Estranei, ultima opera di Andrew Haigh, uscita nelle sale italiane a febbraio 2024. Adam, interpretato da un commovente Andrew Scott, riguarda quasi ossessivamente quei ricordi d’infanzia stampati su celluloide, che raffigurano i genitori perduti.
Uno dei tratti distintivi del lavoro di Haigh è la sua attenzione al realismo e alla sincerità nelle rappresentazioni dei personaggi e delle loro esperienze. I suoi film sono spesso ambientati in contesti quotidiani, troviamo un contrasto tra le grandi praterie e i grattacieli. Il suo potere è quello di trasformare storie apparentemente comuni in narrazioni potenti e profonde, che vertono sulle sfide dei legami e dell'identità.
I film che amo fare, e che voglio fare, pongono dei quesiti allo spettatore. Voglio che le persone escano dal cinema e ripensino ai loro rapporti (come genitori, figli, fidanzati). Mi piace l’idea che, quattro giorni dopo, qualcuno possa ripensare a una scena e dire “dovrei chiamare mia mamma” o “dovrei essere più gentile con il mio fidanzato”
dice il regista durante un’intervista per Film4.
Ed è esattamente questo che fa il verboso cinema haighiano: parla di rapporti, della memoria, ma anche e soprattutto della solitudine.
Andrew Haigh nasce nel 1973 nello Yorkshire e cresce a Croydon, città a sud di Londra. Come lui stesso ha raccontato, essere un adolescente queer negli anni ‘80/’90 durante l’epidemia di AIDS ha creato un trauma, un senso di colpa e di isolamento impossibile da superare. I suoi personaggi ce lo raccontano sotto varie forme quali l’amore familiare, l’amore di coppia o l’autodeterminazione.
Ed è proprio quello che ci mostra il film che ha portato Haigh all'attenzione internazionale: Weekend (2011), una storia toccante che segue l'intensa connessione tra due uomini gay che si incontrano casualmente in un club e trascorrono un fine settimana insieme. Attraverso dialoghi sinceri e interpretazioni autentiche, il regista esplora temi universali come l'attrazione, l'intimità e l'auto scoperta, offrendo uno sguardo intimo sulle complessità delle relazioni umane.
Non è un caso che dopo dodici anni, il regista e sceneggiatore britannico, torna con un’opera che quasi parrebbe il suo sequel. Weekend e Estranei sono senza dubbio i suoi film più personali. In entrambi viene sviscerata la tematica queer e assistiamo a due coming out “fittizi”, che hanno la funzione di liberare i protagonisti dal rimpianto.
Non è sicuramente un caso che, in Estranei, le scene riguardanti la sua infanzia sono state girate nella stessa casa in cui Andrew Haigh è cresciuto fino a sei anni.
Come è naturale che sia, i suoi film sono pezzi di se stesso e della sua immaginazione e coincidono con una parte della sua esperienza.
Nonostante ci sia un evidente filo rosso che collega tutte le sue produzioni, questo non gli ha impedito di spaziare su più generi e di avvicinarsi anche al mondo della serialità televisiva, purtroppo non con il riscontro di pubblico auspicato. Tra il 2014 e il 2016, infatti, è regista e co-sceneggiatore della serie HBO Looking: lo show racconta le esperienze di Patrick, Agustín e Dom, attraverso il contesto della comunità LGBTQ+ di San Francisco. Interrotta dopo solo due stagioni, la serie trova la sua conclusione nel 2016 con un film tv della durata di due ore.
Nel 2018, invece, partono le riprese della mini serie The North Water basata sull’omonima opera di Ian McGuire con protagonisti Colin Farrell e Jack O'Connell.
“È stato il mio modo di esplorare la mascolinità in un modo che trovo interessante. È la storia di un ragazzo che si spinge al limite perché sente di dover essere un certo tipo di persona quando in realtà non è così”
Ancora una volta, il regista Andrew Haigh si distingue per la sua capacità di esplorare l'intimità umana con una sensibilità e una profondità che pochi suoi colleghi riescono a eguagliare. Attraverso i suoi film e le sue serie televisive, Haigh ci invita a riflettere sulle complessità delle relazioni umane e sull'importanza di abbracciare la nostra memoria. Il suo lavoro rimane un punto di riferimento per coloro che cercano storie sincere e toccanti, che risuonino nel cuore dello spettatore.